martedì 14 ottobre 2014

Che io sia per te terremoto
per schiudere la Montagna
perché tu senta la mia voce.
Che io sia per te Maometto
perché la nostra scorza differente
non rompa la nostra inscindibilità.
Che io possa far ardere il Deserto
perché tu non possa più avanzare
che io possa farlo fiorire.
Che allora si spalanchino i tuoi occhi
Montagna atroce, vecchio Deserto
che la meraviglia piova da te
che tu sia fonte nuova per i tuoi piccoli.
Che io mi possa ritirare da te
non più terremoto
non più profeta
solo vento

mercoledì 23 luglio 2014

Ho detestato e sofferto il liceo: per buona parte dei docenti, per la maggior parte dei compagni di classe, di corridoio, di struttura. Ho detestato l'adolescenza mia e del resto del mondo finché ci sono stata dentro.
Prima di andarmene, però, ho regalato un libro ad ognuno dei compagni di classe. C'era che in fondo avevamo fatto 42 ore settimanali insieme per cinque anni, c'era che alcune prime volte della vita, costretti dalla provvidenza, dal caso o dal destino, ci eravamo trovati a viverle insieme. Un po' come prigionieri, avevamo protetto e messo a nudo le nostre intimità. La cosa meritava un regalo d'addio e di futuro e quel regalo non poteva essere se non un libro.

Nel gli anni, mi arriva la notizia di qualcuno di questi noi dispersi che ha letto il libro donato e che ne è stato felice. La letteratura non è inutile. La speranza non è vana. E la preveggenza si difende bene, anche.

Questo detto rimane una carovana di fantasmi con ricco bagaglio di ansie che girovagano per il mio deserto arancione, corrono e sollevano polvere nell'arsura cocente di addii, di soffi di morte, di necessità di iniziare a scrivere
a. la letteratura del futuro
b. la teoria letteraria del futuro

lunedì 3 marzo 2014

L'Orion

Primo lunedì di marzo. Esondo felicità. La lunga notte invernale è finita: siamo sopravvissuti. 

Ha il sapore di un tuffo di libertà dall'Orion - affatto inquinata dalla pure sozza acqua del porto di Toulon. 

Tutto è di nuovo possibile, l'armonia trilla. 

sabato 1 marzo 2014

Le cose belle non chiedono attenzione

Lo dice uno seduto (improbabilmente) da qualche parte sull'Himalaya mentre guarda un leopardo delle nevi insinuarsi tra le rocce della cresta di fronte a lui.
Mi prudono le mani, mi prudono i piedi: i muscoli entrano in tensione, come se dovessi correre, come se dovessi fare un balzo
(uno dei primi pomeriggi caldi della primavera, un compleanno in campagna, una caccia al tesoro, corriamo, salto sul pozzo, salto oltre correndo, in discesa, è quasi volare, forse da bambini potevamo)
mi riprende tutta la dromomania, il nomadismo si espande da qualche punto sotto lo sterno, mi afferra: andare, partire, non importa dove, essere nel movimento, essere movimento, energia per le strade, per i sentieri: è tutto quello che vorrei.

L'odore del pane raggiunge la stanza.
Il pane sa di casa, il topos è vero. Per fare il pane hai bisogno di una cucina, dei soldi per comprare le farine giuste, di un frigo per tenerci dentro il lievito madre. Il pane sul fuoco lo so fare, ma tra l'azzimo degli ebrei in fuga e la pagnotta alle noci che ho appena sfornato corre una distanza abissale, totale; la distanza dell'outcast e della società che ha un'identità (esclusiva).

Alla ribellione a questa scrivania, all'ombra del letto sopra la mia testa, alla serranda abbassata, all'occlusione architettonica, insomma, s'aggiunge l'angoscia per i prossimi tre mesi: io e altri (? venti? trenta?) studenti, Ska e des Esseintes, chiusi in una casa oscura (modello poi per Proust e D'Annunzio), di velluti pesanti, di ricercata fintezza, di racchiusa malattia.
"Perché temere? Il finale è molto chiaro.", dice Ska - giovedì.
"Il finale è chiaro, certo: il problema... se uno si ferma prima?", le faccio presente. Rigetta la possibilità fisicamente con la postura rigida, incassata, aggrappata ai braccioli della poltrona. Perché tanta violenza? Per la mia sciocchezza o perché sente anche lei la tentazione?
"Fermarsi prima significa morire", dice tutto d'un fiato e si rimangia il punto finale, si rimangia la senteziosità, si ammorbidisce un po'. Forse capisce qualcosa. "È una deriva letteraria, la tua. Compiaciuta. Una compiaciuta deriva letteraria" - ha visto che lo schiaffo è arrivato a palmo aperto e rincara perché la sua prospettiva è diretta al crescer(ci)(mi) critica d'arte, non "artista", e ripete insinuando una punta di non-essere-sciocca "e non va bene."

Non va bene ma bisogna sfogarlo da qualche parte, bisogna. Sarà anche l'inverno che è tornato e la pioggia, e la bici che rimane chiusa e piegata nella sua sacca e persino passeggiare è faticoso, in mezzo a tutti gli aghi che ti si piantano nelle ossa.

Victor, fammi viaggiare, andiamocene a letto insieme. Per il resto, speriamo che la fantasia, la penna e la primavera portino consiglio e luce.


lunedì 24 febbraio 2014

Non sto andando a dare l'esame

Ognuno percepisce la complessità del reale secondo le proprie capacità. Il simbolo racchiude quella Verità, emana il mistero. Per questo è possibile esprimersi simbolicamente e rimanere comprensibile; scorciatoie per la realtà tutta, per gli strati tutti della realtà stessa. Ogni autore sa di dover offrire quest'ondeggiamento di possibili letture al suo lettore. Le menzogne dei poeti sono al servizio della verità e la soddisfano.


Vezzi o immagini, è il materiale dei sogni: concreto quanto la realtà, plastico, fisico, sensibile quanto il legno sotto le palme. Un nuovo addio s'annuncia.

Dovrei fare il pane.
Some of these days..

venerdì 14 febbraio 2014

Sparuti

Un giovedì sera dalle strade sgombre. La nostra macchina bianca fila sinuosa nella velocità. P. tace, raggrumato; forse per il governo Letta (per la prima volta, dice, voterà centrodestra. Non lo farà, io lo so, perdonerà quella che vede come un'opprimente scorrettezza, non me lo dice, ce lo ha nelle mani serrate sul volante. Lui ci crede davvero che questo paese sia anche il suo. Io rimango étrangère.)

Il ponte. Monte Mario fascia come una cintura scura la notte, dolce e chiara e senza vento. Un pezzo di luna traluce. Mi dice che T. cerca persone per aprire una rivista online perché facciano quello che lui non avrà il tempo di fare. Mi dice, « Ma quale vuoto va a coprire, questa rivista? Che bisogno c'è? Mah. Nessuno lo leggerà. »
P. non lo sa che io fuggo gli occhi verso il cuppolone, a destra, perché penso: ma questo posto qui, che vuoto va a coprire? Non lo sa perché anzitutto non mi vede, concentrato com'è a guardare la strada oltre il parabrezza coperto dallo strato di unto catrame rilasciato dalle sue Burton.

Il narratore come vuoto centrifugo, ecco cosa vado a coprire. Una centrifuga centripeta, doppia spirale.
E la labirintite che mi ha presa stanotte e non mi lascia, pericoloso mostro cunicolare e oscuro: quando arriverà Asterione a salvarmi?

Nessuno lo leggerà.

mercoledì 12 febbraio 2014

Gap culturale

Piove.
È la prima cosa che senti quando la coscienza torna dopo i vagabondaggi notturni: dietro la finestra serrata, dietro la serranda abbassata, dietro la grata del balcone, dietro la zanzariera, piove. Iniziare la giornata imprecando non è la migliore delle soluzioni ma Roma è stata costruita progressivamente da qualcuno (più di uno) che credeva che a Roma non piovesse mai.
Quando a Roma piove, ad esempio, il 410 non passa. Alcuni autobus si liquefanno. In alcuni piove più che all'esterno. Inaffidabili i mezzi, i dotati di automobile si mettono alla guida: solo per scoprire che oh, a Roma non piove mai, con la pioggia non so guidare. Panico.
A Roma avremmo maggiore facilità con l'invasione di rane nel Tevere, o con le zanzare, sì, ci lamenteremmo un sacco ma in fin dei conti - o con le mosche; per la moria di bestiame che ci frega, non ce n'è di bestiame a Roma, la peste sarebbe persino più semplice della pioggia, le cavallette e le tenebre, come la scenografica trasformazione dei corsi d'acqua in sangue: insomma, basta che non piova.
(la grandine, ecco, forse la grandine ci manderebbe nello stesso panico)

Io attendo l'autobus come se il tempo non avesse più valore, ombrello in una mano e Flaubert nell'altra e ogni tanto alzo gli occhi, faccio solo questo gesto lieve, sono invisibile come l'aggiornamento-in-tempo-reale che, con la pioggia, non funziona. Intorno a me, l'inferno.
Deficienti.
(la manifestazione di superiorità superficiale aiuta a preservare la calma in situazioni di presunta calamità, anche ove la calamità non ci sia ma tutti stiano pensando di essere a Pompei nel 79 d.C.)

Arrivi dove devi arrivare avendo fatto i tre trasbordi. Fai quello che devi fare per diverse ore - mettiamo pure siano otto. Poi devi arrivare, mettiamo, da Nomentana a Trastevere.
Prendi il coraggio sotto braccio, l'ombrello nell'altro, Flaubert sempre complice e di sostegno contro tutti e t'incammini.

C'è una cosa.
Al di là che la calca negli autobus quando siamo tutti bagnaticci e con gli ombrelli sgocciolosi è fastidioso, è non-mi-toccare, ma insomma siamo tutti nella stessa guazza. Al di là di questo: i posti reclinabili sono reclinabili e non fissi perché quando c'è calca ti devi alzare.
TE DEVI ALZÀ.

Al romano, in quando percorritore del suolo di Roma, questo non è chiaro. Al parigino lo è.
Non è evidente che magari, c'è calca, tu sei seduto esattamente-sulla-porta e nessuno riesce a passarci, non è evidente che ARZETE. È un vuoto culturale che non riesco a comprendere. È intuibile a pelle. È una necessità, non si tratta di buona educazione, si tratta di considerare che costa ti sta accadendo attorno.

A questo punto, nasce il dilemma.
Glielo dico o non glielo dico?